Esce stasera su Rai 1 “Folle d’amore – Alda Merini”, il biopic sulla vita della poetessa milanese, diretto da Roberto Faenza e liberamente tratto dal romanzo “Perché ti ho perduto” di Vincenza Alfano, edito da Giulio Perrone Editore.
L’autrice ha ripercorso con noi il viaggio attraverso la scrittura, fino all’arrivo sul set in un cameo che ha incoronato questo suo lavoro su Alda Merini.
Qual è stata la fonte d'ispirazione principale che ti ha portato a riscrivere liberamente alcune pagine della biografia di Alda Merini?
Volevo innanzitutto scrivere una storia sul manicomio e sulla condizione dei malati psichiatrici prima di Basaglia.
La lettura della poesia “Folle, folle, folle d’amore per te “è stata in qualche modo l’innesco poi che mi ha portato a raccontare non la storia di una donna qualunque, ma la storia di Alda Merini, perché nei versi di questa poesia secondo me c’è lo scheletro del romanzo così come poi è venuto fuori. “Perché ti ho perduto”, perché questa poesia racconta essenzialmente una perdita, la perdita dell’amore ma anche la perdita di sé lo smarrimento nella follia dovuta a questo strappo, a questa lacerazione. Ma in una visione più simbolica è una lettura anche più metafisica della poesia stessa. Noi possiamo pensare che in questa perdita la Merini parli anche della perdita dell’ispirazione poetica.
Quindi la fonte principale è stata quella, poi è iniziato tutto il lavoro di documentazione nonché di rilettura della sua opera poetica e poi è nato “Perché ti ho perduto”.
Alda Merini è stata definita la "poetessa dei Navigli" e una voce libera da ogni travestimento. In che modo hai cercato di catturare e trasmettere questa libertà nella tua narrazione?
Il mio romanzo doveva essere uno smascheramento di tanti luoghi comuni: la malattia mentale, il rapporto con la sessualità, la relazione con Manganelli, spesso equivocata, e soprattutto gli anni della detenzione al Pini. Quando ho deciso di accogliere la storia di Alda ho sentito immediatamente l’esigenza di entrare con lei in manicomio. Ero certa che da lì si dipanasse il filo rosso che ha cucito tutta la sua vita, dalle prime prove poetiche, subito straordinarie e stupefacenti, alle ultime. Per liberarla dovevo sentirmi libera nel narrare, libera dalla sua voce, libera da tutta la bibliografia, le immagini, i video in cui Alda stessa si racconta o è raccontata. Per questo motivo ho scelto di narrare la sua storia in terza persona e ho inventato Celeste, la pazza della porta accanto, rovesciando il punto di vista e il canone malattia-normalità e, soprattutto, operando attraverso lei, una sorta di sdoppiamento che potesse dare via libera ai pensieri della poetessa.
Nella trama, si menziona l'amica di Alda, Celeste, che cela un segreto indicibile. Come questo personaggio diventa quasi parte integrante della storia di Alda Merini?
Celeste, per me, è stata veramente una scoperta. Ero partita dalla storia di Alda, ma mi sono ritrovata di fronte a questo personaggio necessario. Celeste è un grimaldello che ci consente di scavare dentro questa storia, di trovare la verità e restituirla al lettore. Ed è anche un gioco di rimandi e di allusioni che io ho fatto con Alda stessa nonché con i lettori. Bisogna leggere il romanzo per comprendere poi chi sia in realtà Celeste.
A me basta dire questo: senza Celeste, sicuramente questo romanzo non sarebbe stato così funambolico, così originale, e probabilmente non avrebbe attirato nemmeno l’attenzione di Rai Fiction per la realizzazione di questo film biopic sulla vita della Merini. Perché in realtà sappiamo bene che ci sono tantissime biografie della Merini, tante opere a cui attingere. Direi che è stato un po’ un colpo di genio, che è nato proprio emergendo in questa storia e andando ad abitare quella stanza bianca del manicomio, sedendomi accanto a lei e incominciando a dialogare, ma soprattutto ad ascoltare la sua storia. Perché io penso che ciò che succede spesso a persone che hanno una fragilità psichica, che non vuol dire per forza malattia, ma anche una estenuata sensibilità, è quella di non trovare mai dall’altro lato, dall’altra sponda, qualcuno che li ascolti.
La storia di Alda Merini è caratterizzata da cadute e resurrezioni durante il suo periodo in manicomio. Come hai gestito la narrativa di questi momenti di sconfitta e rinascita, mantenendo un equilibrio nella presentazione della storia?
Gli anni dell’internamento in manicomio sono il nucleo centrale del romanzo. Tutto ciò che li precede e segue è narrato per sottrazione. Il tempo del manicomio è dilatato perché è una sorta di tempo interiore, un luogo fisico e metafisico, in cui Merini incontra e combatte i suoi demoni, l’ombra, come lei stessa volle definirla. Eppure, in quel luogo infernale, quel Sinai doloroso tante volte cantato in versi memorabili, questa donna trova l’umanità, l’amicizia, perfino l’amore e l’ispirazione poetica della sua opera più matura e compiuta. L’equilibrio è tutto in questa antitesi tra speranza e disperazione, sentimento di morte e resurrezione. Ho seguito la sua voce, ho ascoltato la sua storia, restituita senza infingimenti e pregiudizi.
"Folle d'amore", con Laura Morante e Mariano Rigillo, da oggi su Rai1, è liberamente tratto dal tuo romanzo. Nella fiction anche un tuo cameo, com’è stata questa esperienza?
Il cameo è stato un vero e proprio dono del maestro Faenza, che mi ha consentito di accompagnare Alda Merini, esserle ancora accanto in questo ulteriore “salto mortale” che gli abbiamo fatto fare dalla sua vita, alla vita raccontata tra le pagine di un romanzo, al film. È stata un’emozione enorme, mi sono dovuta misurare chiaramente con una battuta microscopica, però con in scena Laura Morante, un vero e proprio mito del cinema italiano. In un solo istante l’emozione è stata enorme, è stata un’esperienza anche molto faticosa per la quale mi sentivo inadeguata, ma che ho voluto fare a tutti costi perché sono stata felicissima di poter lavorare, anche se solo per un giorno, accanto al maestro Roberto Faenza, ed essere lì realmente in quella finzione che doveva restituire e riscattare questo personaggio del mio cuore.